Intervista con Dario Bressanini sulle leggende metropolitane riguardanti bio e ogm

“La scienza non è una religione, ma si fonda
sul dubbio cartesiano”. Partendo da
questo assunto, Dario Bressanini,
docente all'Università dell'Insubria, conduce da
anni una battaglia per smentire luoghi comuni
sul cibo, spacciati come verità inoppugnabili e
che invece non reggono all'evidenza scientifica.
Con il recente libro, Pane e bugie, scritto con
un'ottica divulgativa, sta facendo scalpore per le
sue posizioni anticonvenzionali, ma documentate
con rigore. Lo abbiamo intervistato con molto
interesse, anche perché nel libro non mancano
notazioni polemiche sul ruolo dell'informazione.

Professore, lei se la prende con i giornalisti...

Non credo alla malafede dell'informazione, penso
piuttosto che, per esigenze di sintesi, spesso si
semplifichino troppo le questioni, si facciano affermazioni
senza citare le fonti che possano corroborarle
e spesso con la titolazione degli articoli si
peggiorano le cose. Prendiamo il caso scoppiato
qualche anno fa del pesto cancerogeno. La verità
è che nel basilico c'è una sostanza che, assunta
in dose massiccia dai ratti, si è mostrata cancerogena.
Non c'è però nessuna evidenza che la
stessa cosa avvenga nell'uomo e, soprattutto, è
molto improbabile con un consumo normale di
basilico. La scienza in casi come questo può solo
esprimersi in termini probabilistici. Certo che se
in un articolo queste cose si dicono in maniera
incompleta e se poi si titola “Il pesto è cancerogeno”,
si crea allarmismo. Capisco che il pubblico,
se si tratta di salute, voglia certezze assolute.
Bisognerebbe però diffidare da chi spaccia verità
assolute in questo campo.

Un esempio?

Ho studiato negli Usa e conosco quel mondo.
Un giornalista di scuola anglosassone se si sentisse
dire dal ministro dell'Agricoltura che intende
vietare gli ogm perché fanno aumentare l'uso dei
pesticidi chiederebbe su quali basi si fondi questa
affermazione. Mi pare che nessuno lo abbia chiesto
a Luca Zaia. Oppure intervisterebbe anche
personalità come Umberto Veronesi o Edoardo
Boncinelli, che la pensano in maniera diversa e
che, pur non essendo degli addetti ai lavori -e
questo significa che non possono nemmeno
essere accusati di conflitto di interessi-, sanno
leggere una ricerca scientifica e la sanno valutare.
Sugli ogm si sono diffuse vere e proprio leggende
metropolitane dietro le quali ci sono precisi interessi
economici.

Quali leggende?

La prima è proprio quella sui pesticidi. Vero è che
a livello mondiale gli ogm hanno incrementato
l'uso di erbicidi, ma hanno anche ridotto l'uso di
insetticidi. La valutazione va fatta su ogni singola
specie e solo su quella si può trarre un bilancio
costi benefici. Un'altra vera e propria bufala è
quella della presunta sterilità degli ogm.

E il cotone di cui parla Vandana Shiva?

Il cotone ogm non è sterile: è un ibrido. Nella
pianura padana da anni si coltiva il mais ibrido;
provenendo da due varietà geneticamente lontane
i semi ricavati dal primo raccolto generano
piante più deboli e gli agricoltori reputano più
conveniente ricomprare i semi che utilizzare quelli
salvati. Per restare a Vandana Shiva, non bisogna
confondere realtà scientifica e politiche commerciali
odiose, come quelle di Monsanto, che, nei
Paesi dove ciò è consentito, manda gli ispettori
per verificare che nessuno usi i suoi semi senza
pagare. Tra l'altro, dal punto di vista del marketing
e della reputazione, a me sembra una politica
autolesionistica.

Veniamo agli interessi economici del partito
no ogm.

I principali sono quelli delle aziende chimiche che
reputano più conveniente il business della coltura
tradizionale che richiede un uso massiccio degli
insetticidi da loro prodotti. Monsanto era un'azienda
chimica trasformatasi in biotech; anche altri
grandi nomi della chimica europea, come Basf e
Bayer, hanno divisioni biotech, ma ritengono che
oggi si possa ancora guadagnare di più con il loro
core business originario. Poi c'è la distribuzione
moderna, che, cavalcando l'onda di un'opinione
pubblica fortemente contraria agli ogm, fa un po'
di marketing a buon mercato. Ho visto in vendita
a prezzo molto alto fragole “ogm free”. Ma non
esistono fragole ogm. Negli Usa anni fa erano
vendute bevande cholesterol free. Peccato che
nessuna bevanda analcolica contenga colesterolo.
Quelle etichette, giudicate pubblicità ingannevole,
sono state ritirate.

I retailer spingono molto anche sul bio. Anche
in questo caso si tratta di marketing?

L'equivalenza più naturale uguale più sano non ha
evidenza scientifica; bisognerebbe intendersi
su che cosa significa più naturale. Il pompelmo
rosa è frutto di una mutazione genetica: significa
che non è naturale? Che la coltivazione
biologica effettuata con tutti i crismi sia migliore
per l'ambiente è pacifico. Che faccia meglio
alla salute del consumatore ancora una volta è
tutto da dimostrare. Sul bio, da cliente, ho un
atteggiamento pragmatico: se il prodotto che
mi propongono ha un rapporto qualità prezzo
favorevole lo compro, altrimenti no.

Un altro luogo comune con cui se la prende
è quella del vantaggio ambientale dei
prodotti a km 0.

Mi pare che Coldiretti abbia, come dire, un
atteggiamento schizofrenico: è felice se freniamo
le importazioni e ancor più felice se
esportiamo. Se nel mondo tutti praticassero il
km 0 l'agricoltura italiana non avrebbe molto
da guadagnare: basta pensare a che cosa è
successo ai produttori di mozzarella quando la
nube del vulcano islandese ha bloccato i voli.
Dopo di che non è vero che il km 0 abbia sempre
un bilancio ambientale favorevole e, quindi,
anche qui non si può generalizzare. Un caso
di studio famoso è quello degli agnelli neozelandesi
consumati nella Germania del Nord: è
stato dimostrato che se li si allevasse ad Amburgo
in ambienti riscaldati si consumerebbe
più energia di quanta ne serve per farli arrivare
congelati dagli antipodi. Io vivo a Como:
d'inverno un pomodoro coltivato in una serra
riscaldata vicino a casa mia, probabilmente, ha
un bilancio energetico peggiore di un pomodoro
coltivato al sole africano; comunque, io abito
più vicino alle serre olandesi che alla Sicilia, ma
il pomodoro lo preferisco di Pachino…

Concludendo, veniamo alla lesa maestà: lei
è arrivato al punto di polemizzare con un
guru come Carlo Petrini…

Non concordo con una visione virgiliana del
contadino felice che vive dei frutti della terra
e dispensa benessere. Ci si lamenta del fatto
che oggi non si può fare più il risotto con le
rane nostrane e che bisogna importarle dai
Paesi dell'Est. Sì, ma quelle rane provenivano
dalle risaie e proliferavano perché non c'erano
i diserbanti. Rimpiangere quei tempi significa
rimpiangere le mondine, chissà com'erano
contente le donne che facevano quel lavoro.
E anche sui piatti della tradizione bisogna intendersi:
i tortellini al ragù li mangiava la curia
bolognese nei giorni di festa, certo non il contado…
Comunque apprezzo molto di Slow food
il lavoro fatto per la salvaguardia dei presidi
gastronomici.

Non mi dirà che va alle loro degustazioni?

Sì, ma sempre in incognito...

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