Chi oggi veleggia sulla quarantina e oltre, certo non ha dimenticato l'inverno del 1973: la televisione terminava i suoi programmi alle 22 e 30, l'illuminazione pubblica era attenuata, il riscaldamento limitato e le domeniche si andava tutti, senza eccezioni, a piedi. Si chiamava in inglese (così pareva più accettabile) austerity ed era conseguente alla crisi del petrolio scoppiata dopo la guerra del Kippur e che aveva portato il costo del barile di greggio a superare quota ...8 dollari. Oggi, con l'oro nero che a fine 2007 ha superato i 100 dollari, cifra che -pur tenendo conto del cambio favorevole dell'euro e dell'inflazione di periodo- rappresenta comunque un costo reale di tre volte superiore, di austerity nessuno si sogna nemmeno di parlare né può essere diversamente in un sistema imperniato sull'accelerazione continua dei consumi.
● CAMBIO DI SCENARIO
Non è una notazione moralistica, ma pura cronaca. E alla medesima categoria appartiene anche la considerazione che nei fatti la situazione oggi appare più grave di quella degli anni Settanta: rispetto ad allora infatti lo scenario è totalmente cambiato. Il prezzo è trascinato non più da pressioni politiche (oggi sarebbe più complicato dato che l'Opec non ha più il controllo monopolistico del mercato), ma dalla legge della domanda e dell'offerta: anche estrazioni a pieno ritmo fanno fatica a fronteggiare le crescenti richieste dei mercati asiatici mentre i “vecchi ricchi”, Europa e Usa, non diminuiscono le loro. E su tutto aleggia l'incognita di quanto greggio sia ancora a disposizione. Infatti, anche dagli scenari più ottimistici, appare chiaro che il petrolio bisognerà cercarselo a profondità sempre maggiori con maggiori costi di estrazione che si riverseranno sulle quotazioni.
● CRESCITA CONTINUA
Che le prospettive di prezzo sul medio termine non siano rosee per gli utilizzatori lo segnala anche il fatto che sul mercato Usa comincino a girare polizze di copertura a garanzia dai rialzi fino a 200 dollari: un livello che evidentemente non è più giudicato inverosimile. In questo quadro, la situazione del nostro Paese appare molto delicata, dato che siamo costretti a importare ogni anno energia per un controvalore tra i 45 (stima per il 2007) e i 50 miliardi (consuntivo 2006), di euro e che le prospettive di ridurre la nostra dipendenza dall'estero sono realisticamente quasi nulle: abbiamo sì spostato quote di consumo dal petrolio al metano, ma la questione dal punto di vista economico cambia di poco perché comunque il prezzo del gas naturale è ancorato a quello del greggio, mentre la nostra forza contrattuale nei confronti dei fornitori di metano è minore rispetto a quella che abbiamo nei confronti dei produttori di petrolio. Che nel breve periodo si possano spostare rilevanti quote di produzione di energia elettrica sulle fonti rinnovabili appare utopistico: dai dati Enea si evince che dal 1995 al 2005 (anno dell'ultima rilevazione disponibili) il peso delle rinnovabili è rimasto tra il 14 e il 15% sul totale del consumo interno; una direttiva Ue, la 2001/77 ci impegna a portare tale quota al 22% entro il 2010. Anche se vi riuscissimo, il sollievo per la nostra bilancia commerciale e per l'ambiente sarebbe leggero. Quanto al nucleare, perso (giusto o sbagliato che fosse continuare la corsa) il treno negli anni Ottanta, non appare davvero proponibile. Ammesso che vi sia la volontà politica bisognerebbe capire, in un Paese dove non è possibile aprire una discarica, chi accetterebbe un reattore vicino a casa.
● NELLE TASCHE DEI CONSUMATORI...
Passando dal sistema Paese alle microeconomie familiari, la prima conseguenza per i consumatori è stata finora l'incremento del prezzo dei carburanti e quello delle bollette elettriche e del gas. Sono aumenti sensibili, ma in molti casi in buona misura attenuabili con scelte di riduzione dei consumi. Inoltre, perlomeno sul costo dei carburanti, si potrebbe intervenire in due modi: il primo è la leva fiscale dato che su un litro di benzina verde la componente erariale arriva a 78 centesimi di euro e sul gasolio a 63. Il secondo è l'efficienza produttiva e distributiva: il costo industriale dei carburanti in Italia è tra i 4 e i 5 centesimi più alto rispetto a quello dei principali paesi europei. E che i petrolieri abbiano tenuto un atteggiamento speculativo in Italia lo dimostra la serie storica dei prezzi di benzina e gasolio; quest'ultimo ha, come abbiamo visto, un trattamento fiscale più favorevole per circa 15 centesimi al litro, eppure il divario di prezzo alla pompa si è, con il tempo, sempre più assottigliato, dopo l'aumento del parco circolante con motorizzazione Diesel. L'incremento dei prezzi del petrolio si accompagna a quello registrato sui mercati internazionali di tutte le principali materie prime, alimentari e non. I dati, fermi a ottobre 2007 e cioè prima dell'ultima fiammata del greggio, ma comunque indicativi, del monitoraggio effettuato dalla Camera di Commercio di Milano, parlano di un incremento generale del 69% in cinque anni, ovvero un ritmo medio annuo superiore del 10% rispetto a quello dell'inflazione. I metalli hanno addirittura registrato un incremento di oltre il 110%. I cereali hanno fatto segnare un aumento del 55% su base annua e e dell'89% su base biennale. l numeri sono ancora più preoccupanti, se disaggregati per voci merceologiche. Dai listini dell'Associazione granaria italiana si ricava infatti che a inizio 2008 il prezzo all'ingrosso della farina per panificazione è cresciuto su base annua del 103% e il semolato del 121% |