C’è una precisa scelta strategica da parte dell’industria verso le marche del distributore: al netto dei puristi di marca e degli specialisti copacker, le Mdd non risultano mai un ripiego e neppure rappresentano un’ultima spiaggia rivelatasi fortunata. Si tratta, al contrario, di un secondo ambito di business, in particolare per le tante Pmi su cui si fonda il tessuto produttivo italiano, che viene perseguito proattivamente e con una forte focalizzazione sui volumi. Sul mercato Lcc post crisi, il copacking non è più visto come una soluzione d’emergenza, per accrescere il livello di saturazione degli impianti di produzione e puntellare le industrie alle prese con tante difficoltà su più fronti (innalzamento costi di produzione, restringimento mercato, difficoltà di accesso al credito per investimenti). Rappresenta una formula consolidata e smart per approcciare il mercato che permette di superare le logiche del passato di contrapposizione con il trade per ottenere ricadute positive su tutte le funzioni aziendali, dalla R&S alla logistica. In ultima analisi, lavorando per gdo e discounter, le medie imprese italiane riescono a investire (e a rendere sostenibile) l’aggiornamento industriale. In questo contesto economico e in questo clima sociale, produrre Mdd è un elemento di stabilizzazione del rapporto tra industria e grandi clienti e uno stimolo a cogliere in maniera nuova i segnali provenienti dal mercato stesso. Non solo per i piccoli, ma anche per i grandi gruppi industriali con brand forti e riconosciuti dal mercato.
“Produrre prodotti Mdd oggi -dichiara Luca Pellegrini, presidente di TradeLab- non è un salvagente, non è un segnale che sancisce la difficoltà di un’azienda, ma ha sempre una motivazione proattiva. Quest’attività è utilizzata dalle industrie con l’obiettivo di consolidare il loro rapporto con le insegne e intessere una relazione con il trade su nuove basi”. L’attenzione della ricerca Ibc-TradeLab si è soffermata su 75 imprese di produzione, forse non statisticamente rappresentative, ma in ogni caso significative per avere uno spaccato della media impresa italiana agroalimentare (il 50% del campione fattura fra i 500 e i 100 milioni di euro). Un ulteriore parametro significativo: sono state scelte aziende che facessero sia copacking sia attività a marchio proprio. Tralasciati volutamente i puristi e gran parte degli specialisti conto terzi. Un dato che smentisce dunque la minaccia della Mdd nei confronti dell’identità aziendale: guardando al campione, il 92% delle imprese copacker inserite fornisce alla distribuzione sia i prodotti a marchio retail, sia i prodotti a marchio proprio. Segmentando questo dato, emerge un’altra valenza: ben il 55% del campione ha debuttato sugli scaffali con un prodotto branded per poi sviluppare, successivamente, anche la Mdd. “Se indaghiamo le ragioni che spingono le aziende a diventare copacker -prosegue Pellegrini- troviamo la saturazione degli impianti produttivi, di certo uno degli elementi più importanti per la produzione industriale, nei quali anche le scale minime sono importanti al fine di ottenere un risultato positivo”. “Dal nostro punto di vista -dichiara Massimo Bianco, amministratore delegato di Soavegel- diventare copacker di catene importanti ci ha spinto a confrontarci con un nuovo modo di sviluppare i prodotti, in modo congiunto. Pensiamo alle catene del frozen che operano door to door: ci spingono a un’innovazione continua della quale beneficia l’intera nostra produzione”. “Credo che fare Mdd in alcune categorie -aggiunge Giuseppe Mastrolia, Ad di Newlat, gruppo alimentare che ha una quota del 20% attribuibile all’attività di copacker- sia difficile: pensiamo alla pasta di semola, mercato estremamente inflazionato, nel quale il prezzo è l’unica variabile. Noi vogliamo andare controcorrente, proponendo ai nostri clienti un prodotto di qualità, con un pack ecosostenibile e un forte richiamo alla tradizione partenopea”. Puntando al miglioramento delle relazioni con i distributori, stazionano in fondo alla classifica della ricerca le ragioni difensive che spingono un’industria a cimentarsi nella produzione di Mdd: per esempio, il recuperare i volumi persi con l’indebolimento della marca industriale. Altro stereotipo smentito dalla ricerca TradeLab è l’aleatorietà della Mdd, in particolare l’estrema difficoltà nel mantenere relazioni di lungo termine con un trade sempre più competitivo e alla ricerca del prezzo come fattore dirimente nella scelta di questo o quel fornitore. “Colpisce -prosegue Luca Pellegrini- l’analisi della durata dell’impegno delle aziende nel comparto Mdd: ben il 43,6% del campione opera sul mercato da 20 anni e oltre, il 35,9% dai 10 ai 19 anni; solo il 5,1% produce a marchio d’insegna da meno di cinque anni. Se facciamo una media, siamo attorno ai 18 anni di attività, un tempo molto lungo specialmente in un’epoca di veloci cambiamenti”. Puntare sull’Mdd, quindi, non è una scelta tattica per tappare le falle, bensì una strategia a più ampio respiro. Lo si evince anche dalle prospettive che i copacker hanno affidato a TradeLab: secondo i dati oltre il 61% del campione si attende una crescita nel triennio 2017-2020, da contenuta a consistente, sopra il 5%. “Oggi la nostra quota è ancora bassa -spiega Roberto Bechis, managing director di Meggle Italia- attorno al 7-10%, vogliamo espanderla, ma non a tutti i costi. Ritengo che le Mdd richiedano un’attenzione e un servizio dedicato, programmazione e trasparenza. Solo rivolgendosi ad aziende che hanno nel loro patrimonio questi valori, la Mdd diviene un elemento competitivo differenziante a scaffale. Soprattutto se si possono infonderle dei valori come il bio o il 100% veg”. “Nei salumi la tipicità è un valore premiante -aggiunge Paola Spiezia, direttore commerciale dell’omonima azienda- in Italia e anche sui mercati stranieri, nei quali le tradizioni campane e del Mezzogiorno hanno una platea di consumatori ancora molto sensibile”.
I contratti fra copacker e insegne, talvolta, presentano la rottura dei rapporti di fornitura, anche se solo un terzo del campione ha dichiarato di aver sofferto di questa evenienza. Tra le cause più importanti, l’ingresso di un concorrente più aggressivo sul prezzo e la discussione con il management della catena riguardo ai margini commerciali, fattori ai quali imputare congiuntamente il 73% delle rotture in gdo e ben l’89,5% sul canale discount. Le tendenze fin qui illustrate, risultano essere più evidenti sul canale discount, che garantisce ai copacker di certo volumi di vendita più elevati, ma margini ridotti rispetto alla gdo e una maggiore tensione sul prezzo, quale elemento competitivo. L’aspetto positivo che viene sottolineato dagli industriali è la più solida competenza produttiva che la controparte discount mette in campo: nella definizione del prodotto da portare a scaffale viene posta maggiore attenzione strategica, seguendo un percorso gradito dal produttore, rendendo il risultato finale meno aggredibile dai concorrenti.
Su entrambi i canali è poco diffuso in ogni caso il fornitore unico: in oltre l’80% del campione i contratti sono condivisi. Tra le motivazioni per questa scelta, sono a pari merito quelle di carattere produttivo “garantirsi un fornitore di riserva” e quelle sul prezzo, con una certa competizione stimolata tra i due copacker, in particolar modo sul canale discount. “In generale -aggiunge Pellegrini- pensiamo che Idm e Mdd hanno due approcci negoziali differenti tra loro: estremizzando, nel primo caso dopo la contrattazione il prodotto va inserito in una scala prezzi, nel secondo caso il prodotto è la scala prezzi”. E questo suona ancor più vero sul canale discount, nel quale la Mdd in alcune categorie è l’unica alternativa. “Uno degli aspetti che differenziano l’essere copacker per catene italiane e straniere -dichiara Sante Ludovico, amministratore unico di La Pizza +1 (35% del fatturato Mdd tra Italia ed Europa)- sono i volumi: diverso è servire una catena come Auchan (che solo in Francia ha 450 iper) o il frammentato settore distributivo italiano. Altro elemento in gioco è la qualità della contrattazione: in Italia si dialoga con più figure”.
Non è più un’eresia parlare di innovazione di prodotto quando si prende in esame la Mdd. Tuttavia, secondo alcuni copacker, il trasferimento coatto dell’innovazione di prodotto, dalla marca alla Mdd, ridurrebbe l’efficacia dell’innovazione stessa. Quasi il 25% degli intervistati da TradeLab concorda con questa visione egemonica del trade nel suo rapporto con l’industria. Una fetta più ampia del campione, tuttavia, ritiene che non sia il trasferimento rapido dell’innovazione dall’Idm alla Mdd a pregiudicarne la redditività, bensì che sia l’aggressività dei competitor a contrarne lo spazio di espansione potenziale. “Lavorare con le catene distributive di tutto il mondo -dichiara Luca Zocca, marketing manager di Pedon- porta un duplice beneficio al nostro business: espandiamo il mercato ed entriamo in contatto con realtà, stili di consumo, pack differenti. Tutti concetti che possiamo, successivamente, introdurre in Italia. La richiesta di innovazione da parte dei retailer stranieri spesso ci spinge a migliorare ed evolvere su molti fronti: abbiamo sviluppato un pack realizzato a partire dagli scarti di legumi che è poi stato adottato da Waitrose per tutti i suoi prodotti secchi”.
Variabili in gioco, opportunità da cogliere, stato delle relazioni con i retailer: Ibc ha realizzato una ricerca ad hoc insieme a TradeLab per gettare uno sguardo al mondo dei copacker (da Gdoweek n. 3/2017)